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Il poeta assassinato dal cielo (Garcia Lorca a New York)


Nel giugno del 1929 Federico Garcia Lorca parte per New York. Il pretesto di una borsa di studio alla Columbia University si rivela per il poeta andaluso una straordinaria occasione per uno sviluppo inaspettato della sua poesia.

Lorca aveva già pubblicato diverse opere e soprattutto quel Romancero Gitano che era stato accolto con uno straordinario successo di pubblico, come raramente era fino ad allora capitato ad una opera poetica.
Scrive Lorca:
"Nel Romancero cerco di armonizzare l'elemento mitologico gitano con fatti assolutamente banali della vita presente, e la risultante è strana ma credo di una bellezza nuova".
Arrivato a New York, con un percorso opposto a quello di tanti scrittori europei che in quegli anni abbandonarono l'occidente alla ricerca di mondi nuovi e incontaminati, Lorca si rende conto che quell'armonia tra l'uomo e la natura è definitivamente perduta. L'essenza stessa del Romancero non ha ragione di esistere al di fuori di quella cultura "altra", quella gitana, divenuta simbolo di opposizione alla modernità borghese.
L'intuizione di Lorca è stata quella di non confrontarsi in maniera retorica con la modernità - New York viene immediatamente percepita come centro del capitalismo - bensì di affrontarla facendo ricorso a quel bagaglio di immagini e a quella visione mitica dell'uomo che si era portato dietro dalla Spagna. Lorca in Poeta en Nueva York riesce a creare una poesia che è una poesia della lacerazione (tra l'uomo e la natura) e insieme il rifiuto di questa lacerazione.
Egli non abbraccia la modernità in maniera entusiastica facendosene cantore né la rifugge. E' significativo, del resto, che la più esatta critica poetica al capitalismo venga realizzata da un poeta lontano, lontanissimo, da qualsiasi posizione ideologica preconcetta. Il suo, infatti, non è un anticapitalismo ideologico.
Di New York scriverà:
"Un esercito di finestre dove non c'era una sola persona che avesse il tempo di guardare una nuvola" 
e di Wall Street:
"in nessuna parte del mondo si sente come lì l'assenza totale dello spirito."
Un naturale accostamento con il movimento surrealista, che fu quello più apertamente anticapitalista tra i movimenti poetici d'inizio novecento, è inevitabile ma, come già detto, Lorca  non ha posizioni ideologiche come i suoi colleghi (si pensi ad Aragon) e dal surrealismo - dal quale comunque si mantenne sempre ai margini - adotto non solo le tecniche ma anche la necessità di usare la poesia per svelare il mondo, quel mondo che solitamente è nascosto dalla prudenza borghese, pur non accettando mai l'idea della poesia utomatica. Tuttavia è proprio in Poeta en Nueva York che si avverte la sfiducia persino nei confronti della poesia di cambiare il mondo ("io, poeta senza braccia, smarrito", dirà di sé Lorca).

Sin dall'incipit, infatti, il poeta (come la chiave all'inizio dello spartito) indica il tono dell'opera. Esordisce, infatti, con dei versi che sembrano una resa se non una accettazione della sconfitta:
"Assassinato dal cielo
fra le forme che vanno verso la serpe
e le forme che cercano il cristallo
lascerò crescere i miei capelli."
Anche nei versi successivi si rincorrono immagini che testimoniano questa impotenza, da "l'albero di moncherini che non canta", alla "stanchezza sordomuta" (aggettivo, quest'ultimo, che riecheggerà per tutta l'opera), fino a quella tragica "farfalla annegata nel calmaio" (quella stessa farfalla che ricomparirà in Ode al re di Harlem per essere dissolta sui vetri della finestra.). Non è difficile comprendere come la farfalla non simboleggi solamente dinamicità e speranza ma più specificamente le potenzialità stesse della parola, della poesia, di intervenire nella realtà.


In questa prima parte della raccolta mi è sempre parso di vederci uno svelarsi di Lorca, uomo prima che poeta. Per lui, infatti, vale più che per altri poeti quanto si dice circa l'infanzia e la genialità. Lorca poeta ebbe la capacità umana ed artistica di mantenere il contatto, anche in età matura, con quel periodo magico della vita. Eppure in queste prime liriche di Poeta en Nueva York, nelle quali emerege una certa nostalgia per quel periodo, sembra che Lorca voglia o, pur non volendo (ricordiamo che Lorca si oppose alla pubblicazione di questa opera che poi venne pubblicata postuma), lasci trapelare quel travaglio che accompagnò il suo passaggio dall'infanzia, che non è solo la sua ma quella mitica dell'uomo, alla maturita, ovvero quella bruttissima maturità del mondo moderno, borghese e capitalista.
Si avverte una perdità di innocenza, da cui la malinconia per il tempo dell'innocenza, che purtuttavia in poesia riesce a ritrovare a forza, verrebbe da dire parafrasando Baudelaire.

La seconda lirica, 1910 (intermezzo), comincia con
"quei miei occhi millenovecentodieci..."
 e perché parlare di quegli occhi se non perché oramai li ha persi? Dove sono rimasti quegli occhi, è lui stesso a dircelo qualche verso più avanti:
"Nel luogo dove il sogno inciampava nella realtà
Là i miei piccoli occhi."

Dopo questa "confessione", comincia Poeta en Nueva York, di cui il lettore in questa prima sezione conosce già le conseguenze che ha prodotto sull'animo del poeta.


La prima sezione è dedicata ai neri di Harlem (Los Negros). Basta citare le seguenti parole di Lorca per comprenderne il motivo:
"Io credo che il fatto di essere di Granada mi fa inclinare alla comprensione simpatetica dei perseguitati. Dei gitani, dei neri, dell'ebreo, del moro che tutti portiamo dentro".
Qualche decennio dopo un'altro poeta, omosessuale come Lorca, e proprio in virtù di questo, scriverà:
"E cerco alleanze che non hanno altra ragione

di essere, come rivalsa, o contropoartita,
che diversità, mitezza e impotente violenza:
gli ebrei... i negri... ogni umanità bandita."


Inizia così il lungho viaggio di un poeta in crisi, duplice crisi, se si pensa che Lorca non componeva versi da più di un anno ed aveva concluso il raporto che lo aveva sentimentalmente legato allo scultore Emilio Aladrén.  Un viaggio allucinato in cui l'io poetico assiste impotente allo spettacolo spietato del capitalismo messo in scena sulle strade di New York. Inevitabile, dunque, la fuga e la gioia del ritorno in un mondo più umano rappresentato dall'inaspettato calore della lirica Son di negri a Cuba, che di fatto chiude l'opera.

Di seguito, in Appendice, mi limito a trascrivere:1910 (intermezzo), Ode al Re di Harlem, Pesaggio della folla che vomita (Crepuscolo di  Coney Island), Natale sull'Hudson, New York. Ufficio e denuncia,



Appendice Poetica



1910 
(intermezzo) 

Quei miei occhi millenovecentodieci
non videro seppellire i morti,
né la festa di cenere di colui che piange all’alba,
né il cuore che trema rannicchiato come un cavalluccio marino.

 

Quei miei occhi millenovecentodieci
videro la bianca parete dove orinavano le bambine,
il muso del toro, il fungo velenoso
e una luna incomprensibile che illuminava negli angoli
i pezzi di limone secco sotto il nero duro delle bottiglie.
 

Quei miei occhi sul collo del ronzino
nel seno trafitto di Santa Rosa addormentata,
sui tetti dell’amore, con gemiti e fresche mani,
in un giardino dove i gatti mangiavano le rane.
 

Soffitta dove la polvere vecchia raccoglie statue e muschi,
casse che nascondono silenzi di granchi divorati
nel luogo dove il sogno inciampava nella realtà.
Là i miei piccoli occhi.
 

Non chiedermi nulla. Ho visto che le cose
quando cercano il loro corso trovano il vuoto.
C’è un dolore di vuoti nell’aria senza gente
e nei miei occhi creature vestite senza nudo!

Ode al re di Harlem

Con un cucchiaio
strappava gli occhi ai coccodrilli
e batteva il sedere alle scimmie.
Con un cucchiaio.

Fuoco eterno dormiva nelle pietre focaie
e gli scarafaggi ubriachi di anice
dimenticavano il muschio dei villaggi.

Quel vecchio coperto di funghi
andava dove piangevano i negri
mentre scricchiolava il cucchiaio del Re
e arrivavano i serbatoi d’acqua marcia.

Le rose fuggivano sui fili
delle ultime curve del vento
e sui mucchi di zafferano
i bambini pestavano piccoli scoiattoli
con un’innocenza di frenesia macchiata.

Bisogna passare i ponti
e arrivare al rossore negro
perché il profumo di polmone
ci colpisca le tempie
col suo vestito di caldo ananas.

Bisogna uccidere il biondo venditore di acquavite,
tutti gli amici dell’isolato e dell’arena,
e bisogna battere con i pugni chiusi
le piccole ebree che tremano piene di bolle
perché il Re d’Harlem canti con la sua folla,
perché i coccodrilli dormano in lunghe file
sotto l’amianto della luna,
perché nessuno dubiti dell’infinita bellezza
dei piumini, delle grattugie, dei rami e delle casseruole di cucina.

Ah, Harlem ! Ah, Harlem, Ah, Harlem !

Non c’è angoscia paragonabile a quella dei tuoi rossi oppressi,
del tuo sangue rabbrividito dentro l’oscuro eclisse,
della tua violenza granata sordomuta nella penombra,
del tuo grande re prigioniero con un abito da portinaio.

*

La notte aveva una fessura
e tranquille salamandre di avorio.
Le ragazze americane
portavano bambini e monete nel ventre
e i ragazzi svenivano
nella croce del risveglio.

Sono loro.
Sono loro quelli che prendono whisky d’argento
vicino ai vulcani
e ingoiano pezzettini di cuore
sulle gelate montagne dell’orso.

Quella notte il Re di Harlem
con un durissimo cucchiaio,
strappava gli occhi ai coccodrilli
e batteva il sedere delle scimmie
con un durissimo cucchiaio.

I negri piangevano confusi
fra paracqua e soli d’oro.
I mulatti masticavano gomma
ansiosi d’arrivare al torso bianco
e il vento fasciava specchi
e spezzava le vene dei ballerini.

Negri, negri, negri, negri.

Il sangue non ha porte nella vostra notte supina.
Non c’è pudore. Sangue furioso sotto la pelle,
vivo sul dorso del pugnale e sul petto dei paesaggi,
fra le pinze e le ginestre della celeste luna del cancro.

Sangue che cerca per mille strade morti infarinate e ceneri di nardi,
rigidi cieli in declivio dove le colonie dei pianeti
rotolino per le spiagge con gli oggetti abbandonati.

Sangue che guarda lento con la coda dell’occhio
fatto di sparti spremuti e di nettari sotterranei,
sangue che ossida l’aliseo trascurato di una traccia
e dissolve le farfalle sui vetri della finestra.

E’ il sangue che viene, che verrà
sui tetti e le terrazze, da ogni parte,
per bruciare la clorofilla delle donne bionde,
per gemere ai piedi dei letti, davanti all’insonnia dei lavabi
e infrangersi in un’aurora di tabacco e di smorto giallo.

Bisogna fuggire,
fuggire per le cantonate e chiudersi agli ultimi piani
perché il midollo del bosco penetrerà dalle fessure
per lasciare sulla vostra carne una leggera traccia d’eclisse
e una falsa tristezza di guanto stinto e di rosa chimica.

*

Nel silenzio sapientissimo
quando i camerieri e i cuochi e quelli che puliscono con la lingua
le ferite dei milionari
cercano il Re per le strade o negli angoli del salnitro.

Un vento del sud di legno obliquo nel nero fango
spunta alle barche rotte e s’inchioda sulle spalle.
Un vento del sud che porta
zanne, girasoli e alfabeti
e una pila di Volta con vespe annegate.

L’oblio era raffigurato da tre gocce d’inchiostro sul monocolo.
L’Amore da un solo volto impassibile a fior di pietra.
Midolle e corolle componevano sulle nuvole
un deserto di gambi senza una sola rosa.

A sinistra, a destra, da sud e da nord
si alza il muro impassibile
per la talpa e l’ago.
Non cercate, negri, la fessura
per trovare la maschera infinita.
Cercate il grande sole del centro
ananas rumorosa.
Il sole che scivola nei boschi
sicuro di non incontrare una ninfa.
Il sole che distrugge numeri e non ha mai trovato un sogno.
Il sole tatuato che scende per il fiume,
e muggisce seguito dai caimani.

Negri, negri, negri, negri.

Mai serpe, né zebra, né mulo
impallidirono morendo.
Il boscaiolo non sa quando spirano
i clamorosi alberi che taglia.
Aspettate sotto l’ombra vegetale del vostro Re
che cicute e cardi e ortiche abbattano le ultime terrazze.

Allora, negri, allora, allora
potrete baciare freneticamente le ruote delle biciclette,
metter coppie di microscopi nelle tane degli scoiattoli
e danzare liberamente mentre i fiori spinosi
assassinano il nostro Mosè quasi nei giunchi del cielo.

Ah ! Harlem travestita !

Ah ! Harlem minacciata da una folla di vestiti senza testa !

Mi giunge il tuo rumore.
Mi giunge il tuo rumore attraverso tronchi e ascensori.

Attraverso lastre grigie
dove fluttuano le tue automobili coperte di denti,
attraverso cavalli morti e delitti minuscoli.
Attraverso il tuo grande Re disperato
con la barba che arriva al mare.
 
 Paesaggio della folla che vomita (Crepuscolo di Coney Island)
 La donna grassa avanzava
Strappando le radici e bagnando la pelle dei tamburi;
la donna grassa
che sbudella i polipi agonizzanti.
La donna grassa, nemica della luna,
correva per le strade e gli appartamenti abbandonati
e lasciava negli angoli piccoli teschi di colombe
e scatenava la furia dei banchetti degli ultimi secoli
e chiamava il demonio del pane sulle colline del cielo spazzato
e filtrava un’ansia di luce nelle circolazioni sotterranee.
Sono i cimiteri, lo so, i cimiteri
E il dolore delle cucine sepolte nell’arena,
sono i morti, i fagiani e le mele d’altro tempo
quelli che ci spingono nella gola.

Giungevano i rumori della selva del vomito
Con le donne vuote, con bambini di cera calda,
con alberi fermentati e camerieri infaticabili
che servono piatti di sale sotto le arpe della saliva.
Non c’è altra via, figlio, vomita! Non c’è altra via.
Non è il vomito degli ussari sul seno della prostituta
Né quello del gatto che ha inghiottito una rana per distrazione.
Sono i morti che graffiano con le mani di terra
Le porte di pietra dove marciscono nuvole e desserts.

La donna grassa avanza
Con la gente delle navi, delle taverne e dei giardini.
Il vomito agitava delicatamente i tamburi
Fra pupille di sangue
Che chiedevano protezione alla luna.

Ahimé! Ahimé! Ahimé!

Questo mio sguardo è stato mio ma ora non lo è più,
questo sguardo che trema nudo nell’alcool
e congeda navi incredibili
sugli anemoni dei moli.
Mi difendo con questo sguardo
Che nasce dalle onde là dove l’alba non si azzarda,
io, poeta senza braccia, smarrito
tra la folla che vomita,
senza cavallo scalpitante che tagli
gli spessi muschi delle mie tempie.

Ma la donna grassa avanzava sempre
E la gente cercava farmacie
Dove l’amaro tropico si fissa.
Solo quando alzarono la bandiera giunsero i primi cani
La città intera si raccolse contro le spallette dell’imbarcadero.
          
       Natale sull'Hudson
La spugna grigia!

Il marinaio appena sgozzato.
Il fiume grande.
La brezza di limiti oscuri.
Il filo, amore, il filo.
I quattro marinai lottavano col mondo,
col mondo di ariste che vedono tutti gli occhi,
col mondo che non si può correre senza cavalli.
Erano uno, cento, mille marinai
A lottare col mondo delle velocità,
senza capire che il mondo
era solo nel cielo.

Il mondo solo nel cielo solo.
Sono le colline di martelli e il trionfo dell’erba folta.
Sono i vivissimi formicai  e le monete nel fango.
Il mondo solo nel cielo solo
e il vento all'uscita di tutti i villaggi.

Cantava il lombrico il terrore della ruota
e il marinaio decapitato
cantava l'orso d'acqua che l’avrebbe stretto:
e tutti cantavano alleluia,
alleluia. Cielo deserto.
È lo stesso, lo stesso! alleluia.

Ho passato tutta la notte sulle impalcature dei sobborghi
spargendo il sangue sui gessi dei progetti,
aiutando i marinai a raccogliere le vele lacerate.
E sto con le mani vuote nel rumore della foce.
Non importa che a ogni minuto
un altro bambino agiti i suoi rami di vene
né che il parto della vipera, scatenato sotto i rami,
calmi  la sete di sangue di quelli che guardano il nudo.
Ciò che importa è questo: vuoto. Mondo solo. Foce.
Alba no. Favola inerte.
Solo questo: Foce.
O mia spugna grigia!
O collo appena sgozzato!
O mio grande fiume!
O brezza di limiti che non sono miei!
O filo del mio amore, filo che ferisce!
 

New York
Ufficio e denunzia


Sotto le moltiplicazioni
c'è una goccia di sangue d'anitra;
sotto le divisioni
c'è una goccia di sangue di marinaio.
Sotto le somme, un fiume di sangue tenero;
un fiume che scorre cantando
nei dormitori delle periferie,
ed è argento, cemento, o brezza
nell'alba ingannevole di New York.
Esistono le montagne. Lo so.
E le lenti per la sapienza.
Lo so. Ma io non sono venuto a vedere il cielo.
Sono venuto a vedere il torbido sangue,
il sangue che porta le macchine alle cateratte
e lo spirito alla lingua del cobra.
Tutti i giorni si ammazzano in New York
quattro milioni di anitre,
cinque milioni di porci,
duemila colombe per il piacere degli agonizzanti,
un milione di vacche,
un milione d'agnelli
e due milioni di galli,
che fanno i cieli a pezzi.
È meglio singhiozzare affilando il coltello
o assassinare i cani nelle allucinanti partite di caccia,
che sopportare all'alba
gli interminabili treni di latte,
gli interminabili treni di sangue
e i treni di rose ammanettate
dai commercianti di profumi.
Le anitre e le colombe,
i maiali e gli agnelli
metton le loro gocce di sangue
sotto le moltiplicazioni,
e i terribili urli delle vacche munte
riempiono di dolore la valle
dove l'Hudson s'ubriaca d'olio.
Io denuncio a tutta la gente
che ignora l'altra metà,
la metà irredimibile
che alza i suoi monti di cemento
dove battono i cuori
degli animaletti che si dimenticano
e dove cadremo tutti
nell'ultima festa delle buche.
Vi sputo sulla faccia.
L'altra metà m'ascolta
divorando, cantando, volando, nella sua purezza,
come i bambini nelle portinerie
che tolgono fragili bastoncini
ai buchi dove si ossidano
le antenne degli insetti.
Non è l'inferno, è la strada.
Non è la morte. È la bottega della frutta.
C'è un mondo di fiumi spezzati e distanze inaccessibili
nella zampina di questo gatto spezzata dall'automobile,
e io sento il canto del lombrico
nel cuore di molte bambine.
Ossido, fermento, terra scossa.
Terra, tu stesso che nuoti nei numeri dell'ufficio.
Che faccio? Ordinare i paesaggi?
Ordinare gli amori che dopo sono fotografie,
che dopo sono pezzi di legno e rigurgiti di sangue?
No, no; io denuncio.
Denuncio la congiura
di questi uffici deserti
che non trasmettono le agonie,
che cancellano i programmi della selva,
e m'offro per esser mangiato dalle vacche munte
quando i loro gridi riempiono la valle
dove l'Hudson s'ubriaca di olio.
 (Traduzioni di Carlo Bo)

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