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Moby Dick (un istante d'eterno)


La poesia, o sarebbe meglio dire il sublime, talvolta si nasconde dentro le parole, ma sarebbe un errore pensare che siano le parole stesse ad essere più o meno poetiche. In effetti la poesia non è, mi verrebbe da dire, qualche cosa che si può trovare nelle parole, o in qualsiasi altro posto, ma è tramite le parole che può manifestarsi. Tuttavia le stesse parole che riescono a svelare la poesia ad un lettore possono non farlo con un altro. La poesia, insomma, è come la possibilità, che certe parole, accordate in un certo senso, offrono a chi legge, di tendere (tendere e non raggiungere) verso un qualcosa che solitamente ci è precluso. Ovviamente non tutte le parole lo fanno.
Un libro di Camilleri, non me ne voglia, si legge in mezza giornata, uno di Flaubert richiede più tempo. Non tanto perché la lettura è più difficoltosa, quanto perché capita più spesso di doversi fermare, di non poter più andare avanti. 
Non si può più continuare la lettura perché è nella nostra mente che si sono formate le pagine di un libro nuovo, mai letto. Un libro che siamo sicuri durerà poco tempo, mentre l'altro, quello che abbiamo in mano, potrà essere letto anche in un altro momento. Allora tendiamo verso quelle pagine mentali anche quando sappiamo di non riuscire mai a metterle a fuoco, a leggerle con chiarezza.

Ricordo che la prima volta che presi coscienza di questo meccanismo fu mentre leggevo uno dei Sonetti di Shakespeare (quella, si, che fu una lettura lunghissima). Il sonetto era il 107, ecco i primi due versi:
"Not mine own fears nor the prophetic soul
of the wide world dreaming on things to come..."

"Né le mie intime paure, né l'anima profetica 
del vasto mondo sognante cose a venire"
(Traduzione di Alessandro Serpieri)
"L'anima profetica del vasto mondo sognante cose a venire". In questi versi sembra che, quasi distrattamente, Shakespeare ci abbia messo l'infinito. Infatti non c'è solo la storia (il passato) delle sue intime paure, né, insieme alla storia, solo il vago senso del futuro. C'è un futuro, a dire il vero, ma è quello presagito dall'anima profetica di un vasto mondo che quel futuro lo sogna. C'è l'universo intero, c'è tutto lo spazio (il vasto mondo sognante), c'è tutto il tempo (le intime paure e le cose a venire) e tuttavia c'è qualcosa che travalica sia lo spazio che il tempo.
Non era mia intenzione, però, parlarvi di questi versi. L'argomento del post, messo in bella posta nel titolo, è il celeberrimo romanzo di Herman Melville che tratta le vicende del capitano Achab alla caccia disperata di quel demone di una balena bianca. Moby Dick, insomma.
Per chi ama la libertà (ed è uno degli amori meno comuni e tra i più difficili da portare avanti), il capolavoro di Melville figurerà di certo tra gli scaffali della sua libreria. Tuttavia, i nepalesi lo sanno, non si possono conoscere le vette dell'Himalaya ma, una ad una, le pietre che le compongono. Ragion per cui mi sarebbe difficile, qui, ora, parlarvi di Moby Dick come romanzo. Mi limiterò, dunque, ad una singola frase.
Si tratta del capitolo LXXXI (Il "Pequod" incontra la "Vergine"). Le lance del "Pequod" sono appena riuscite a superare quelle della "Vergine" nella corsa di avvicinamento ad una balena e riescono ad arpionarla. Ecco la scena: 
"Fu il suo colpo di morte. Poiché, ormai, era talmente esausta per la perdita di sangue, che si staccò disperatamente voltandosi dalla rovina fatta, giacque palpitando sul fianco, dibatté impotente la pinna mutilata, poi si girò lentamente su se stessa come un mondo al tramonto, voltò i bianchi segreti del ventre, si distese come un tronco, morì."
(Traduzione di Cesare Pavese)
Ed eccola li, ancora una volta, la poesia, il sublime. "Poi si girò lentamente su se stessa come un mondo al tramonto"
Un attimo prima noi lettori siamo sulle lance del "Pequod" intenti a guardare il dorso sanguinante di una vecchia balena e quello dopo siamo proiettati, sparati come un razzo, ad un'altezza tale da riuscire addirittura a vedere il mondo, la terra nella sua sfericità imperfetta, girare su se stesso mentre dietro il bordo, oscurando chissà quali terre, lentamente scompare il sole.

Abbiamo tutti in mente la scena. Magari per rinfreascarci la memoria andiamo a vedere qualche fotografia della Nasa. Eppure Moby Dick è stato pubblicato nel 1851. E, una cosa è sapere che la terra è tonda, un'altra riuscire a immaginarsi la scena (insieme poetica e scientificamente perfetta) della terra che lentamente gira su se stessa mentre da qualche parte il sole è al tramonto. Mi chiedo con quale forza di astrazione Melville sia riuscito a prefigurarsi una scena del genere, una scena che solo più di un secolo dopo sarebbe stata fotografata e sarebbe diventata di uso comune. Certo sarebbe da sapere se l'iconografia del tempo avesse già realizzato un soggetto del genere e se Melville ne aveva avuto conoscenza, tuttavia ciò non toglie il valore di questo breve stralcio di un romanzo che sarebbe facile defiinire le montagne russe della letteratura mondiale per la capacità che ha di passare dall'altissimo al bassissimo dell'esperienza umana. Del resto Melville non scrive "la terra" ma scrive "un mondo", cioè non solo l'oggetto fisico, il corpo celeste, ma l'intero globo con la totalità dei suoi regni (il vegetale, l'animale ...), con la totalità dei suoi individui, dei suoi ecosistemi... insomma quell'infinito tutto che ci si può immaginare di un mondo al tramonto. Seppure quel mondo viene colto nel breve momento del tramonto è ugualmente di una vastità infinità e noi, lassù, mentre lo guardiamo lentamente girare su se stesso ci sentiamo riempire di tutta l'infinità di storie e di tempi e di diverse esperienze che lo compongono.

Il capitolo, dopo quella frase, si sarebbe concluso poco dopo, ma una tale vertigine, raggiunta quell'altezza, è difficile da superare riimmergendosi nella lettura di un libro di carta chissà dove tanto in basso, mentre da lassù si vedono pagine e pagine di pensieri che avevamo già in noi ma che non riusciamo quasi mai a vedere se non quando il poeta, il Melville di turno, non riesce a regalarci quella vertigine che dura un istante ma è, saremmo tentati di dire, l'eterno.

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