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Bouvard et Pécuchet (...Vomiterò sui miei contemporanei il disgusto che essi mi ispirano)


Bouvard et Pécuchet è un romanzo strano, verrebbe da dire un "bestia" strana. Letto, con o senza i muri di parole che si è tirato dietro, lascia la stessa identica impressione di incompiutezza data non solo dalla sua effettiva natura di incompiuto ma anche da una indeterminatezza dei suoi personaggi reali, Bouvard e Pécuchet, e anche della vera protagonista che è la stupidità umana. 
A me ha dato fastidio la mancanza di spessore psicologico dei due personaggi, ovviamente voluta; tanto voluta che a volte è facile scambiare l'uno per l'altro, nonostante le talune specifiche caratteristiche di ognuno dei due. Ovvio comunque che si tratta di due macchie usate a pretesto per un romanzo che, evidente anche questo, non è più realista. Borges scrive che con Bouvard et Pécuchet è finito il romanzo realista in quanto questa opera guarda al passato, alle parabole di Voltaire, di Swift e degli orientali, ma anche al futuro, a quelle di Kafka (J. L. Borges, Discussione). In questo ambito diventa interessante anche l'accostamento, fatto da Franco Rella, tra Bouvard e Pécuchet e i due protagonisti di Aspettando Godot, Vladimiro ed Estragone. Se però Rella individua una continuità tematica nella impossibilità di modificare il reale tramite la ragione, motivo per cui i due personaggi si trovano "in un mondo privo di senso, abituato all'insensata presenza di servi e di padroni"; a me pare di vedere anche un possibile parallelismo nella spersonalizzazione dei personaggi che giustamente Beckett usa come marionette per la sua farsa, cosa che invece non riesce a fare, fino in fondo, Flaubert. Se un limite c'è, in questa opera, per di più incompiuta, mi pare che sia nella indeterminatezza non solo dei personaggi ma anche del tono dell'opera che non si sa mai se sia serio o farsesco. Anche se c'è da dire che è lo stesso Flaubert a scrivere, in una sua lettera, che il lettore non saprà mai se ci si sta prendendo gioco di lui o meno. Dunque è presumibile pensare che l'utilizzo del farsersco, e la rinuncia allo spessore e persino alla coerenza dei suoi personaggi principali, sia volutamente parziale; ma ancora una volta, anche se voluta, questa ambiguità non mi pare riesca, letterariamente, a condurre là dove il suo autore avrebbe voluto.
Alla luce delle premesse e delle altissime aspettative che Flaubert aveva nei confronti di questa opera sembra piuttosto chiaro che i risutati ottenuti siano inadeguati. 
Bisogna ricordare che Flaubert a proposito di questo libro scriveva: 
"Esalerò la mia collera. Si, mi sbarazzerò alla fine di ciò che mi soffoca. Vomiterò sui miei contemporanei il disgusto che essi mi ispirano, dovessi schiantarmi il cuore; sarà ampio e violento [...] ci abbandoneremo ad una letteratura feroce." (Lettera a Mme Roger des Genettes, 5 ottobre 1872)
Già in precedenza aveva scritto, sempre a proposito di Bouvard et Pécuchet:  
"Ho paura di farmi lapidare dalle popolazioni e deportare dal governo, senza contare che ci vedo delle difficoltà di esecuzione spaventevoli." (Lettera ai Fratelli Goncourt, 6 maggio 1863).
Le difficiltà di esecuzione evidentemente ci furono e non tutte riuscì a superarle, ad ogni modo ciò che più mi colpisce di queste affermazioni è l'ottimismo positivistico di Flaubert; scrivere un libro che possa portare le popolazioni a lapidare l'autore e il governo a deportarlo... vale a dire che l'autore (entrando nel romanzo) si aspettava che l'opera d'arte o comunque la ragione potesse intervenire sulla realtà. Poi Flaubert, con i suoi personaggi, si è trovato ad imboccare una strada diversa, una strada che, mi sento di poter dire, lo ha portato troppo avanti rispetto non solo ai mezzi di espressione che aveva a dispozione ma rispetto all'intero gusto e alla sensibilità della sua epoca. Siamo già a quella crisi che cominciava ad annunciare Nietzsche e all'inizio della modernità.
Il senso dell'opera risulta, pertanto, e forse al di là delle intenzioni del suo autore, tristemente catastrofico: se l'epoca del progresso, della ragione, con uno dei suoi massimi esponenti raggiunge la sconfortante conclusione che la ragione non serve e che sarà sempre accompagnata dalla stupidità, è chiaro che si definisce fallimentare un sistema di valori su cui poi, invece, ed era inevitabile si è costruita la nostra contemporaneita. 
Forse per il solo motivo che le sto leggendo in questi giorni, ma mi sono venute in menti alcune frasi da Un patriota, dopotutto di George Orwell, una sorta di diario di guerra, in cui con un'asciuttezza e parimenti una criticità sorprendente descrive i mesi del 1940 in cui a Londra si aspettava da un momento all'altro l'attacco dell'esercito tedesco. Ebbene Orwell in quell'orrore non riesce a smettere di notare l'altro orrore, quello di cui già parlava Flaubert, ovvero la stupidità umana da cui evidentemente deriva anche il primo, tanto che si chiede se la guerrà (rivesciando il precedente sistema di valori) sia effettivamente un male e poi in un passo scrive: 
"Tuttavia se la gente come noi è in grado di interpretare le situazioni più di quanto lo siano i cosiddetti esperti, io penso lo si debba non tanto alla capacità di prevedere eventi specifici, quanto di capire in che tipo di mondo viviamo. In ogni caso, so fin dal 1931 (Spender dice di saperlo dal 1929) che il futuro dovrà esserre catastrofico". 
Forse il catastrofico di cui parla Orwell è lo stesso a cui si è abbandonato Flaubert e lo stesso in cui sono immersi i protagonisti di Aspettando Godot. O quello in cui viaviamo, incoscienti del suo orrore, nel nostro contemporaneo.

Per concludere voglio riportare un passaggio che è ammirevole innanzitutto per composizine retorica e perché tratta un tema antichissimo e attuale da cui derivano le nostre democrazie rappresentative, ovvero il rapporto tra suffraggio universale e istruzione. In questo caso Flaubert ci mette sotto gli occhi alcuni elementi che da soli bastano a suscitare nel lettore una riflessione critica sull'argomento. Flaubert si limita a descrivere l'operato del Conte che si professa contrario alla istruzione di tutte le classi e contemporaneamente fa propaganda al suffraggio universale. A questa fa, inevitabilmente, seguire un'amara riflessione per bocca di Pécuchet che mi sembra di poter dire sia non solo del suo personaggio ma anche del suo autore che, così come Orwell, aveva capito il tipo di mondo in cui viveva e non si stupiva delle future catastrofi che lo attendevano, anzi le prediva:
"Che ha fatto il popolo" chiese Vaucorbeil, apparendo all'improvviso sulla soglia. [...]
"Io sostengo," riprese il conte, " che bisogna tenerlo lontano da certe letture."
Vacucorbeil replicò: "Siete dunque contrario all'istruzione?". 

"Certamente! Vi spiace?" 

[... il dialogo continua per circa un'altra pagina in cui si parla della moralità che è richiesta ad ogni opera d'arte e al suo autore. Concluso il dialogo i presenti lasciano la sala e rimangono i soli Bouvard e Pécuchet]
Poi sfogliarono gli stampati del conte. Tutti reclamavano il suffragio universale.
"Mi sembra," disse Pécuchet, "che avremo presto disordini."

Interessantissimo il commento che Roland Barthes fece a Bouvard et Pécuchet in un articolo apparso In Magazine littéraire n°108 - Janvier 1976 che è possibile leggere nella traduzione italiana a questo link: Roland Barthes legge Bouvard et Pécuchet di Flaubert

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