Quando mio padre era in
età da scuola, la scuola, nel paesino di provincia dell'estremo
meridione in cui era nato, serviva ad impartire i basilari rudimenti
che gli avrebbero permesso di leggere, scrivere, e fare di conto. Ma
soprattutto serviva ad imprimergli come un sigillo quella vita che l'appartenenza ad
una classe (quella sociale di provenienza) gli destinava. La scuola, tuttavia, serviva anche ad inculcargli una
morale che gli permettesse di accettare quei limiti imposti alla sua vita e a non ribellarsene.
Mio padre era nella
classe dei “poveracci”. Le lezioni per loro erano nel pomeriggio.
Quando gli chiedo il nome del suo maestro inizia a ripetermene una
sfilza, perché mio padre ha una memoria che avrebbe meritato ben
altra istruzione: e comunque, mi dice, non li ricordo
tutti. Ovviamente nel peggiore dei casi rimanevano lì per non
più di un anno.
Mi chiedo spesso se per
lui lo Stato ha dispiegato le stesse forze che ha dispiegato per
altri; certo è che da lui ha poi preteso più di quanto non gli
abbia dato e persino più di quanto avrebbe dovuto dargli. La
risposta è fin troppo ovvia per non dirla. No.
Da uomo, invece, io che
ho studiato, mi sento ingiusto nei confronti di mio padre che non ha
potuto farlo e si capisce che avrebbe voluto.
Soprattutto amava i
numeri. La matematica, quella pura, lui l'avrebbe capita, mi
dico, dandogli un merito che forse non possiede.
Di tanto in tanto recita
dei versi. Lui che in pratica non ha mai letto. Ce li facevano
imparare a scuola, mi dice, ma il più delle volte non glielo
domando. I suoi racconti sembrano venire da un epoca lontanissima,
secoli e secoli. E invece sono passati appena cinquanta anni.
Strappavamo la
corteccia ai tronchi dei carrubi e ne leccavamo la linfa zuccherina,
mi ha raccontato una volta...
Vi starete chiedendo a
cosa serva una premessa tanto lunga e privata, in che modo possa
introdurre le tre poesie che citavo nel titolo e che cosa le unisce.
La prima, probabilmente
la più conosciuta, è una poesia di Pascoli, La cavalla storna;
la seconda è una poesia in dialetto palermitano di Giovanni Meli, Li
surci; l'ultima è di Giovanni Bertacchi, Insegnamenti
lontani.
Ad unirle non è solo
l'apparente casualità con cui sono risalite alla luce dal pozzo
della memoria infantile di mio padre, ma una serie di concordanze
interne ed esterne che sembrano legarle. Forse, tuttavia, è solo la
penombra causata dalla lampada sbiadita del mio sentimentalismo che
ne smorza i contorni e fa scorgere tra di loro similitudini che non
esistono. Non saprei. So soltanto che esistono tre poesie, di tre
poeti che si chiamano Giovanni, che in vario modo richiamano la
figura paterna, che da decenni, solitarie, abitano la testa scevra di
poesia di un uomo meridionale di una sessantina d'anni che altro non
ha studiato che quei versi.
La poesia di Pascoli,
manco a dirlo, fa riferimento all'episodio biografico della morte del
padre del poeta. Quella di Bertacchi nei manuali scolastici spesso viene presentata mutila
ritagliando solo quelle prime quartine espressamente dedicate al padre. Infine, la favoletta
morale di Giovanni Meli sulla quale, è evidente, regna un'aria
paternalistica, che però non fa riferimento diretto alla figura
paterna bensì a quella dello zio. A questo proposito v'è da dire
che Giovanni Meli è frequentemente appellato come abate, perché
così lui stesso si faceva chiamare seppure, pur indossando abiti
religiosi, non prese mai i voti. Dico questo perché era frequente
nel settecento che gli abati avessero dei figli dai quali, non
potendo smascherarne la parentela, si facevano chiamare zio.
Queste tre liriche “scolastiche” le rievoco così, nella loro facilità di lettura, nella loro immediatezza metrica e melodica, senza commento, senza altra presentazione se non quella, intima e privata, che ho già esposto e che me le ha fatte conoscere ed apprezzare al di là, e oltre, quei meriti e quelle qualità che possono o non possono avere.
Queste tre liriche “scolastiche” le rievoco così, nella loro facilità di lettura, nella loro immediatezza metrica e melodica, senza commento, senza altra presentazione se non quella, intima e privata, che ho già esposto e che me le ha fatte conoscere ed apprezzare al di là, e oltre, quei meriti e quelle qualità che possono o non possono avere.
La cavalla storna
di Giovanni Pascoli
Nella Torre il silenzio era già
alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.
I cavalli normanni alle lor
poste
frangean la biada con rumor di croste.
frangean la biada con rumor di croste.
Là in fondo la cavalla era,
selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
nata tra i pini su la salsa spiaggia;
che nelle froge avea del mar gli
spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.
Con su la greppia un gomito, da
essa
era mia madre; e le dicea sommessa:
era mia madre; e le dicea sommessa:
che portavi colui che non ritorna;
tu capivi il suo cenno ed il suo
detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;
il primo d’otto tra miei figli e
figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.
e la sua mano non toccò mai briglie.
Tu che ti senti ai fianchi
l’uragano,
tu dài retta alla sua piccola mano.
tu dài retta alla sua piccola mano.
Tu ch’hai nel cuore la marina
brulla,
tu dài retta alla sua voce fanciulla”.
tu dài retta alla sua voce fanciulla”.
La cavalla volgea la scarna
testa
verso mia madre, che dicea più mesta:
verso mia madre, che dicea più mesta:
che portavi colui che non ritorna;
lo so, lo so, che tu l’amavi
forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.
Con lui c’eri tu sola e la sua morte.
O nata in selve tra l’ondate e il
vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;
sentendo lasso nella bocca il
morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:
nel cuor veloce tu premesti il corso:
adagio seguitasti la tua
via,
perché facesse in pace l’agonia...”
perché facesse in pace l’agonia...”
La scarna lunga testa era
daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.
al dolce viso di mia madre in pianto.
che portavi colui che non ritorna;
oh! due parole egli dové pur
dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.
E tu capisci, ma non sai ridire.
Tu con le briglie sciolte tra le
zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,
con negli orecchi l’eco degli
scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
seguitasti la via tra gli alti pioppi:
lo riportavi tra il morir del
sole,
perché udissimo noi le sue parole”.
perché udissimo noi le sue parole”.
Stava attenta la lunga testa
fiera.
Mia madre l’abbracciò su la criniera
Mia madre l’abbracciò su la criniera
portavi a casa sua chi non ritorna!
a me, chi non ritornerà più
mai!
Tu fosti buona... Ma parlar non sai!
Tu fosti buona... Ma parlar non sai!
Tu non sai, poverina; altri non
osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!
Tu l’hai veduto l’uomo che
l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.
esso t’è qui nelle pupille fise.
Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un
nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.
Ora, i cavalli non frangean la
biada:
dormian sognando il bianco della strada.
dormian sognando il bianco della strada.
La paglia non battean con l’unghie
vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.
dormian sognando il rullo delle ruote.
Mia madre alzò nel gran silenzio
un dito:
disse un nome... Sonò alto un nitrito.
disse un nome... Sonò alto un nitrito.
Li surci
di Giovanni Meli
- Un surciteddu di testa sbintata
- avìa pigghiatu la via di l'acìtu,
- e faceva na vita scialacquata
- cu l'amiciuni di lu so partitu.
- Lu ziu circau tiràrilu a bona strata,
- ma zuppau a l'acqua, pirch'era attrivitu,
- e dicchìu la saìmi avìa liccata
- di taverni e zàgati peritu.
- Finalmenti mucidda fici luca;
- iddu grida: Ziu, ziu, cu dogghia interna;
- so ziu pri lu rammaricu si suca;
- poi dici: "lu to casu mi costerna;
- ma ora mi cerchi? chiaccu chi t'affuca!
- Scutta pri quannu jisti a la taverna."
- Traduzione
I topi - Un topolino che aveva la testa vacua
- aveva preso la cattiva strada
- e faceva una vita sconsiderata
- con amici della sua stessa pasta
- lo zio cercò di portarlo sulla buona strada
- ma fu una causa persa come zappare nell'acqua
- e inoltre s'era avvezzato ai piaceri
- di taverne e bordelli
- Infine una gatta riuscì a catturarlo;
- il topolino allora grida: Zio zio con trasporto
- lo zio con rammarico si tirò indietro;
- poi gli disse: il tuo caso mi costerna
- ma perché mi cerchi solo ora? Colla corda al collo!
- Paga per quando andasti alla taverna.
Insegnamenti Lontani
di Giovanni Bertacchi
Trucioli biondi, ch' io mirai da
bimbo,
quando mio padre lavorava al torno,
che lungo il dì gli facevate intorno
soffice un nimbo.
quando mio padre lavorava al torno,
che lungo il dì gli facevate intorno
soffice un nimbo.
Ceppi di faggio, che spaccai fanciullo
a colpi d'ascia, nel natio cortile,
commosso il cuor d'un impeto virile
in quel trastullo;
orto sereno delle mie giornate,
ove sentii le prime volte il sole,
e voi, raccolte per le brune aiuole,
prime insalate;
se dilette mi furono di poi -
le mense, i fuochi, i casalinghi arnesi,
se amai le selve e i rustici paesi
forse è per voi.
Datteri scuri e melarancie d'oro,
che nel materno fondaco, all'arrivo,
mi ferivate di stupor giulivo
come un tesoro;
fantasticate Epifanie, recanti
i Magi attesi dalla pia Betlemme,
(e nella notte tralucean le gemme
dei tre turbanti);
se nelle calde fantasie di poi
mi furon cari i continenti ignoti
e i paesi del Tropico remoti,
forse è per voi.
Ma un amore del nord, dei cheti
asili,
dove il pigro passato ognor rivive,
mi venne al cuore dalle mie festive
gite infantili;
quando slitta, in placide cadenze,
lenta lenta salìa i Grigioni,
o solenni scendean, coi postiglioni,
le diligenze.
Ero tutto, a quel tempo: in lieti
spassi
trattavo l'acque del sonante Mera,
derivando i canali a primavera,
tra cespi e sassi.
Correvo in gara con gagliarda lena;
guidavo il carro sulla via maestra,
e nelle arti svolgea la mia
maldestra,
timida vena.
Oh, dalle scorze de' castagni, a
maggio,
quante lunghe cavai note informi!
Su' miei quaderni, quante traccie
informi
di paesaggio!
Ora di tutto quel fervor d'imprese
non mi restò che la sottil fatica
della parola; ma la smania antica
al cuor si apprese;
e divenne l'amore, ond'io, giocondo
nelle speranze de' miei canti, amai
l'opere tutte, tutti gli operai
sparsi pel mondo.
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